Non ho commentato, se non di straforo, i risultati elettorali; sono convinto che ciascuno riesca a farsi una sua opinione e che, in caso non abbia voglia di mettersi a pensare, possa più o meno saccheggiare un’idea pret-a-porter da spendere in ogni circostanza.
Ho come l’impressione che questa ultima, e cattiva, abitudine, stia diventando un comportamento di massa, soprattutto quando a scuola ho l’occasione di parlare di politica con qualche studente. Se e quando lo faccio, parto da una premessa: dichiaro la mia posizione non per convincere o per fare proseliti, ma per mettere chi mi parla nella condizione di conoscere la mia parzialità. Credo sia più giusto che non una finta equidistanza o un atteggiamento falsamente super partes. Però, poi, quando si discute, è difficile convincere della necessità delle ragioni al proprio argomentare: ho spesso l’impressione che la scelta di parte, per la destra o la sinistra, sia una scelta a-razionale e quasi fideistica, che si nutre più di emozioni e di passioni che non di razionalità e pensiero. Ho l’impressione che diventi quasi necessario scegliere con chi stare – e non schierarsi significa star fuori dal gioco – certe volte più per sapere contro chi poter inveire che per scegliere con chi si vuole fare un po’ di strada e quale direzione si vuole seguire per raggiungere un risultato condiviso. Solo se si parte da questa riflessione, credo, si può scegliere con convinzione e ragionevole certezza. E si può scegliere se s’è fatto anche un po’ di silenzio, se si è stati in grado di prendersi il tempo – tutto quello necessario, neanche un istante di meno – per ascoltare ed ascoltarsi. Poi, è vero (perché è successo anche a me), capitano gli incontri che ti fanno conoscere modi inaspettati di pensare, che ti fanno ricredere, che ti mettono in crisi o che ti rafforzano nelle certezze.
Sono questi i momenti che auguro alle alunne ed agli alunni che ho la fortuna di avere e che, probabilmente, hanno la sfortuna di annoverarmi tra i loro prof.
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