venerdì 15 agosto 2014

Al termine di un cammino

Rileggo, in questi giorni in cui sto terminando l'esperienza di presidente della Misericordia Maggiore di Bergamo, la relazione che accompagna l'ultimo bilancio approvato dal consiglio di amministrazione, che si rinnoverà il prossimo 2 settembre, soffermandomi in particolare sulle pagine finali.
È una soddisfazione poter guardare al tempo trascorso con la consapevolezza dell'impegno che, nella collaborazione tra ruoli e persone diverse, è stato profuso anche in questi primi 10 anni di vita "da fondazione", gli ultimi di una storia pluricentenaria che il prossimo anno traguarderà il quarto di millennio.
Ci pensavo anche stamattina in Basilica, mentre il Vescovo al termine della Messa Solenne per l'Assunta ringraziava l'"opera pia" ricordandone i meriti della storia e le attività del passato più recente.
Tra le grandi fortune che ho incontrato nella mia vita, dalla famiglia alla professione, dagli incarichi amministrativi alle relazioni di amicizia e colleganza, iscrivo anche questi 10 anni alla MIA: la sua grandezza, reale ed ideale, permette a ciascuno di confrontarsi meglio con sé stesso, facendo maturare – così è stato per me – la consapevolezza sia della necessità di un impegno da spendere come "con-sorti", sia del proprio limite rispetto a un'istituzione così grande e radicata, sia del bisogno a saper corrispondere, nel quotidiano, agli ideali così alti e profondamente umani che chi ci ha preceduto ha voluto come costitutivi della MIA.

giovedì 14 agosto 2014

Grazie, prof Keating

Ho letto con grande piacere questo articolo: il prof d’Avenia, quello che molti delle e degli adolescenti che conosco vorrebbero con sé in classe, riferisce come abbia influito sulla sua scelta di vita anche l’incontro al cinema con il prof Keating.
Anche per me si è trattato di un incontro importante, ma io non ero 16enne come d’Avenia quando vidi il film per la prima volta.
Avevo appena terminato il servizio civile e stavo iniziando ad insegnare, nella scuola in cui sono ancora adesso e dove avevo frequentato il liceo. Tornavo nelle stesse aule e negli stessi corridoi (penso soprattutto alla vetrata-acquario che era il “corridoio del biennio”, che non c’è più…) con le stesse vetrinette datate di materiali scientifici e i laboratori di chimica e di fisica, giù, in fondo, quasi inaccessibili allora come lo erano stati ai miei tempi, da studente.
Iniziare ad insegnare con il prof Keating davanti a sé sembrava un compito arduo; anch’io, come lui, tornavo nella stessa scuola che avevo lasciato qualche anno prima ma, per fortuna, non c’erano né annuari né foto di classe appese alle pareti dei corridoi…
Ovvio, mi aveva colpito quel prof e mi aveva in qualche modo rassicurato quando a volte qualche comportamento magari un po’ eterodosso per la pedagogia ufficiale faceva capolino anche nel mio agire quotidiano. Ma soprattutto mi aveva dato la spinta da una parte a condividere con i miei alunni (e, in quegli anni iniziali, eravamo quasi coetanei…), la responsabilità della scoperta del valore formativo dell’esperienza scolastica, nonostante (o forse meglio, grazie anche a) i paradigmi dei verbi irregolari e i TVB (test veloci e bastardi) che sono rimasti – pur se molto annacquati – anche oggi nelle mie classi. Mi aveva regalato, il prof Keating, l’emozione della condivisione del successo e dell’insuccesso dei miei alunni, una attitudine alla “spiegazione empatica” che talora produce risultati davvero straordinari, la volontà di sfidare i compromessi (dall’ode alla zanzara alla descrizione della pattumiera di casa) per guadagnare un punto più avanzato di relazione con ciascun alunno.
Riguardo indietro e non posso che ringraziare; se sono un prof meno peggiore di quanto sono e sarei potuto essere, beh, è solo grazie al prof Keating.

mercoledì 13 agosto 2014

Non c'è alcuna verità

«Nella foschia relativistica dei media partecipativi tutto è una questione di opinione: ognuno può dire la sua. È questa la democrazia, dopotutto! E così persino un ex gigante delle pubbliche relazioni come Richard Edelman è costretto ad ammettere mestamente: «In quest'era di esplosione delle tecnologie mediatiche non c'è alcuna verità, eccetto quella che ti crei per te stesso».
Douglas Rushkoff, Presente continuo - Quando tutto accade ora

sabato 26 aprile 2014

25 aprile 2014 - Commemorazione ufficiale nel 69° anniversario della Liberazione

«Dedico questi ricordi ai miei amici: vicini e lontani; di vent’anni e di un’ora sola. Perché proprio l’amicizia – legame di solidarietà, fondato non su comunanza di sangue, né di patria, né di tradizione intellettuale, ma sul semplice rapporto umano del sentirsi uno con uno tra molti – m’è parso il significato intimo, il segno della nostra battaglia. E soltanto se riusciremo a salvarla, a perfezionarla o a ricrearla al di sopra di tanti errori e di tanti smarrimenti, se riusciremo a capire che questa unità,quest’amicizia non è stata e non dev’essere solo un mezzo per raggiungere qualche altra cosa, ma è un valore in se stessa, perché in essa forse è il senso dell’uomo – soltanto allora potremo ripensare al nostro passato e rivedere il volto dei nostri amici, vivi e morti, senza malinconia e senza disperazione».
Con queste parole apre il suo Diario partigiano Ada Prospero,vedova di Piero Gobetti, che nel 1956 diede alle stampe il suo libro, in cui racconta la storia di una madre che si dedica alla lotta partigiana insieme col figlio diciottenne. Ne tenne nota giorno per giorno tra il 1943 ed il 1945 e solo un paio d’anni dopo la Liberazione, ad impressioni ancora vive nella memoria, iniziò a scriverne il testo che poi venne pubblicato da Einaudi.
Vorrei partire dalla dedica che abbiamo appena ascoltato e dalle parole che, poco prima della morte, Ada Prospero ebbe a dire a chi le chiedeva cosa pensasse delle celebrazioni della Resistenza. Rispose:
«Mi pare che la stiano impacchettando con un bel cartellino per mandarla al museo. Perché tagliarla fuori come un momento unico e irripetibile, parlarne come di un punto di arrivo invece che di un punto di partenza? La sua validità sta nel fatto che in essa non poteva esistere conformismo: situazioni sempre nuove imponevano soluzioni sempre nuove, e questo bisogna farlo capire ai giovani. Se sapremo analizzare spregiudicatamente quel periodo con i suoi contrasti, i suoi limiti, i suoi errori, daremo loro la possibilità di una scelta. Ritroveranno quella stessa carica che avevamo noi: come ogni età dell’uomo ha la maturità che le è propria, così ogni epoca della storia ha la propria carica di giovinezza, che si può esprimere in forme e aspetti completamente diversi, ma avrà sempre uno stesso impeto creatore e rinnovatore».
Ada Prospero morì nel 1968; le sue parole di critica e di speranza suonano ancora attualissime e sembrano aver passato indenni le fasi della storia italiana che sono seguite nei decenni seguenti, partendo proprio dai movimenti del ’68 per giungere alla definizione dello scorso dicembre che il Censis ha dato degli italiani, “sciapi ed infelici”, passando per luci – poche – ed ombre –assai di più – dei decenni intermedi.
Abbiamo concordato di lasciare ai rappresentanti dell’ANPI, dei Combattenti e Reduci e, quest’anno, nel prosieguo di un’ideale staffetta, al rappresentante dei Marinai, le voci della commemorazione diretta; a me il compito di “chiudere” quanto detto in una considerazione che possa poggiarsi sulla ricchezza dell’esperienza di chi quelle vicende ha vissuto.
Nelle parole di Ada Gobetti appare evidente in prima istanza la dimensione valoriale dell’esperienza vissuta: un legame di vicinanza forte, capace di scardinare il pacifico ma avvilente compromesso con la propria coscienza cui il fascismo chiamava giorno per giorno. E, nelle considerazioni che abbiamo ascoltato per seconde e che nacquero alla vigilia dello scoppio delle contestazioni del 1968, c’è forte l’impegno alla valutazione critica di quanto accaduto durante la Resistenza ma, soprattutto, c’è l’esortazione alle generazioni future a vivere con la stessa intensità una passione politica, capace di interpretare correttamente il proprio tempo per renderlo adeguato al “sentirsi uno con uno tra molti”.
Proprio a fianco del Diario Partigiano, sul mio comodino, in questi stessi giorni c’era un altro volume, a prima vista del tutto lontano ed estraneo al primo; si tratta de Il libro dell’orologio a polvere di Ernst Jünger, che un exalunno di tanti e tanti anni fa mi aveva caldamente consigliato di leggere.
In parallelo, una storia che racconta una vita spesa in un tempo preciso e un volume che narra il desiderio dell’uomo di misurare il tempo. Li ho trovati reciprocamente illuminanti e, credo, è proprio grazie al secondo volume che io comprendo meglio quanto stiamo facendo oggi e quanto dovremo continuare a fare nei prossimi anni, con e per convinzione. Abbiamo tutti consapevolezza del fatto che due sono i grandi paradigmi che ci permettono di ragionare sul tempo: c’è chi vede il tempo come una struttura ciclica, circolare, che torna su se stessa, e chi lo interpreta linearmente, con una specifica destinazione. Scrive Ernst Jünger:
«Il tempo che ritorna è un tempo che dona e restituisce. Le ore sono ore dispensatrici. Sono anche diverse l'una dall'altra perché ci sono le ore di tutti i giorni e le ore di festa. Ci sono albe tramonti, basse e alte maree, costellazioni e culminazioni.
Il tempo progressivo, invece, non viene misurato in cicli e moti circolari, ma su una scala graduata; è un tempo uniforme. Qui i contenuti passano in secondo piano. Ed è per questo che il tempo in quanto tale diventa importante.
Il tempo progressivo, invece, non viene misurato in cicli e moti circolari, ma su una scala graduata; è un tempo uniforme. Qui i contenuti passano in secondo piano. Ed è per questo che il tempo in quanto tale diventa importante.Nel ritorno l'importante è l'inizio, nel progresso la meta finale». 
Mi pare che per gente come noi, abituata oggi ad una scansione lineare del tempo, ritornare annualmente sui nostri passi (come fa il tempo della natura, delle stagioni…) per celebrare la festa della Liberazione sia proprio recuperare un inizio, un nuovo inizio, di cui si deve dar conto ed a cui ci si deve richiamare.
Nelle parole che oggi abbiamo sentito convivono, a mio avviso, proprio queste due dimensioni: l’idea di una tensione verso il futuro, da costruire con solidarietà e vicinanza, e d’altro canto anche la consapevolezza di un’identità, di un passato, di una storia, che va raccontata proprio perché noi siamo quell’identità, quel passato, quella storia.
La cerimonia del 25 aprile incarna questi due momenti: ci riporta ad una dimensione di circolarità del tempo, proprio nella celebrazione dei suoi contenuti originari, e ci consente di rimanere immersi nel tempo odierno, cui va dedicato il nostro impegno perché valori e ideali per cui in tanti hanno dato la vita, non si perdano.
Scrive sempre Ernst Jünger:
«Il tempo ciclico e il tempo progressivo sollecitano due stati d'animo fondamentali dell'uomo, il ricordo e la speranza. Sono i due edificatori della sua dimora. In loro si incontrano padre e figlio, spirito conservatore e spirito riformatore». 
Sappiamo, con la cerimonia di oggi, essere capaci ancora di ricordo e speranza. Lo è stata Ada Prospero, lo sono stati persone, gruppi, enti, associazioni che si sono impegnati in questi anni a tramandare una memoria; sappiamolo quindi essere anche noi, quotidianamente, recuperando nel nostro agire il ricordo di quanto è stato e la speranza di saper costruire il futuro.
Viva il 25 aprile! Viva l’Italia!

sabato 18 gennaio 2014

Schedati anche dalle ricerche

Scrive Roberto Casati a pag. 117 di Contro il colonialismo digitale - Istruzioni per continuare a leggere
Se cerchi informazioni su Gobetti e sei un progressista a Venezia riceverai risultati differenti da quelli che riceve un conservatore a Messina. Google analizza le tue ricerche passate per costruire un modello del tuo io online cui offrire dei risultati di cui anticipa che saranno pertinenti per te. Il modello è un filtro che ci nasconde una fetta di realtà, rimandandoci di continuo l'immagine delle nostre preferenze. Il meccanismo di retroazione è rapido e temibile: Google costruisce un modello sulla base dei tuoi click ed altri dati, ti propone delle risposte, tu fai click sulle risposte che propone, visto che le trovi pertinenti, nutrendo a tua volta il modello, che ti propone a sua volta altre risposte sempre più «pertinenti», eccetera. Alla fine, è inevitabile, l'orizzonte delle risposte si restringe perché le tue risposte convergono. Google News impara quali sono le tue preferenze ideologiche e richiude a poco a poco l'orizzonte al di là del quale forse ogni tanto vale la pena di guardare.

sabato 4 gennaio 2014

A proposito dell'(ab)uso di Instagram

Ha scritto Roberto Cotroneo nella sua rubrica su Sette ieri, 3 gennaio 2014

È chiaro che questo esporsi è un modo per combattere l'angoscia dell'assenza, è un modo per colorare con tinte acide un quotidiano immobile che fissiamo di continuo, come un discorso che non arriva da nessuna parte. (...)
Il mondo dove vivo, gli oggetti che mi circondano, i muri della mia casa, le finestre sui miei cortili ora sono di tutti, perché niente di ciò che mi circonda è più mio. Così l'intimità diventa una forma capovolta di distanza, l'intimità è estraneità, un pensiero che torna a se stesso senza guardare oltre. Non è un caso che si scattino solo foto del proprio volto. Non è un caso che l'obiettivo più usato sugli smartphone sia quello frontale: lo schermo del proprio cellulare fa da specchio e non finestra sul mondo. 

venerdì 3 gennaio 2014

Le idee vanno condivise

Marcello aveva tentato di farle capire che le idee sono tali in quanto tu puoi comunicarle agli altri, che se le tieni per te non servono a nulla, anzi, non sono nemmeno idee. 
(Luciano Bianciardi, Il lavoro culturale)