venerdì 22 agosto 2008

I dwell in possibility (E. Dickinson)

Ascriverei anche questo nella categoria del "libri che fanno bene"...

La fiction di valore costruisce un mondo. Essa «mette al mondo» personaggi, storie, vicende, oggetti… Se la fiction è vera, allora produce esperienza autentica. Se non lo è, allora mi sentirò come di fronte a un videogioco, a uno schermo, a qualcosa che comunque non mi coinvolge nella carne e nel sangue. Se la fiction è vera, allora io faccio esperienza di vita. (pag. 17)

Il romanzo di valore possiede in se stesso la formula capace di aprire un mondo, di far conoscere e dare intelligenza della realtà. E questo significa innanzitutto spremere la realtà stessa, cogliendone la sostanza, il suo fondamento. (…) Se un romanzo non dichiara un mondo e non lo spalanca davanti al lettore – non importa se in modo realista o surrealista – non fa compiere al lettore una vera esperienza, non fa conoscere nulla: è vuoto e noia. (pag. 19)

La letteratura, quella autentica, è un «evento umano», che coinvolge l’uomo e il suo essere in questo mondo fin dalle midolla. La letteratura non è «smidollata», non rientra nella categoria del puro passatempo, del gioco d’artificio, delle scatole cinesi, del leggero passeggio per il labirinto dell’esistenza, del «puro» intreccio delle forme. Essa riguarda la vita. (pag. 21)
Antonio Spadaro, Abitare nella possibilità - L'esperienza della letteratura, Jaca Book 2008

PS: anche un clic sul titolo del post apre una possibilità...

giovedì 21 agosto 2008

L'estate sta finendo...

...e pare che alcune persone debbano preparare, per il rientro, due tracce tra queste...

D’oh, che connessioni...

Tre passi dalle due più recenti letture estive.
Lunghetti, forse, poco postmoderni, ma interessanti.

Il motivo del successo che i Simpson stanno ottenendo, risiede nell’aver intercettato con straordinaria felicità espressiva il cuore di quella che siamo abituati a chiamare la postmodernità: vale a dire il gioco libero ma sapiente della citazione, del rimando, dell’allusione insistita a linguaggi, episodi d’attualità, temi, generi, opere d’arte note o notissime. Siano esse patrimonio della cultura alta, da 2001 Odissea nello spazio e Quarto potere all’opera omnia di Shakespeare, o quasi, o di quella popolare, da Paul McCartney agli U2 e ai Green Day e alla cucina cinese, fino alla pubblicità, al design e al fumetto. In un territorio franco nel quale abitano alla rinfusa luoghi comuni e manie, paure e passionacce, revival e nostalgie, apocalissi e futuri possibili, il tutto esibito in diretta e sbattuto sullo schermo senza alcuna pretesa di politically correctness. La parodia e l’ironia, che sono sparse a piene mani nella serie, del resto, sono appunto, probabilmente, i principali caratteri distintivi del postmoderno.
(Brunetto Salvarani, Da Bart a Barth - Per una teologia all’altezza dei Simpson, Claudiana 2008, pag. 27-28)

I tre poemi, infatti, sono organizzati secondo una selezione gerarchica indiscussa per Odissea ed Eneide, a torto discussa per l’Iliade (ne parleremo), che individua un personaggio centrale, dal quale promana un fascino preponderante, e in funzione di esso si disegna l’equilibrio delle funzioni narrative e il sistema delle relazioni.
Ecco dunque la figura dell’eroe, ammirato e idealizzato perché possiede le virtù o le qualità apprezzate dal gruppo sociale cui appartiene; ma le possiede a un livello tale che la superiorità quantitativa si trasforma in soglia qualitativa, una diversità.
Tra lui e la pluralità degli altri, la diversità istituisce conflitti che possono occupare tutti i possibili livelli di profondità e violenza: neppure il più lieve permette l’omologazione, neppure il più duro esce dal quadro di un codice condiviso, ma si situa come opposizione fra un uso eccessivo, o meglio forse, eccessivamente coerente dei valori, e un uso ammorbidito dalla considerazione dell’opportunità e del profitto, e reciprocamente limitato nella convivenza quotidiana. L’eroe tende a rappresentare un punto fermo nei confronti della mutevolezza del reale.
(Guido Paduano, La nascita dell’eroe – Achille, Odisseo, Enea: le origini della cultura occidentale, BUR 2008, pag. 10-11)

Il primo segreto della loro accoglienza così universalemete favorevole è ciò che Umberto Eco ci ha definitivamente rivelato a proposito dell’inossidabile Mike Buongiorno in anni ormai lontani (nel Diario minimo, 1963): il fatto che il buon Mike – e Madame Bovary per i più intellettuali, e i Simpson, appunto – c’est moi. Ci siamo noi nell’ingenua fiducia nel consumismo di Homer, nel suo tentativo di sgattaiolare il più lontano possibile dali doveri lavorativi, nella ricerca cosi naive di un quarto d’ora di celebrità, nella bulimia rassegnata davanti al frigorifero o alla scatola della televisione (e potremmo proseguire a lungo). Ci piaccia o no; si lotti contro tali derive o no; lo vogliamo confessare apertamente, oppure no. Perché di quel combinato disposto di tradizionalismo e antiautoritarismo è composta in genere la nostra esistenza, come quella dei musi gialli…
Lo scriveva argutamente Vincenzo Mollica, il pacioso e voluminoso giornalista TV, forte di qualche tratto fisico che lo apparenta a Homer, sul mensile “Linus” già nel 1999, che «i Simpson sono come siamo, esattamente come siamo, sono la nostra carta d’identità, il liquido amniotico in cui abbiamo navigato prima di venire al mondo, addirittura ci sono tracce del loro passaggio nel Dna che tutti ci unisce». Fino a lanciarsi in un’immagine dal sapore epico: «Ecco, i cinque Simpson sono insieme Dante e Virgilio, con la differenza che il Paradiso, il Purgatorio l’Inferno sono concentrati nelo stesso girone, che è la loro casa così spoglia, arredata solo di colori che nessun campionario di vernici contempla». (…) I Simpson mettono in scena l’ansia e insieme la possibilità di un riscatto dall’abisso in cui quotidianamente rischiano (o rischiamo?) di precipitare.
Brunetto Salvarani, Da Bart a Barth - Per una teologia all’altezza dei Simpson, Claudiana 2008, pag. 35-37)