Una delle cose più difficili da dire a un’altra persona è: «Vorrei che tu mi amassi senza alcuna buona ragione per farlo». Ma è ciò che tutti noi vogliamo e ben di rado osiamo dire a un’altra persona: ai nostri figli, ai nostri genitori e compagni, ai nostri amici, e agli sconosciuti. Soprattutto agli sconosciuti, che non hanno né buone né cattive ragioni per amarci. Ed è per questo che ci raccontiamo storie e preghiamo che possano essere trasformate da quell’angelo sul tetto in racconti che siano credibili e soprattutto che riguardino noi tutti, indipendentemente da quello che siamo o non siamo l’uno per l’altro. Ed è certo per questo che mia madre racconta le sue storie a chiunque la ascolti, e che mio padre mi ha raccontato da dove viene il mio nome. E se per me è troppo tardi per dargli quello che, in una nervosa mattina domenicale di tanto tempo fa, si è azzardato a chiedermi, ora, ricordando la sua storia e raccontandola di nuovo qui, ho compreso qualcosa di più sul mio stesso modo di raccontare. E ricordando, come se stessi scrivendo le mie memorie, ciò che le storie degli altri mi hanno fatto ricordare, mi hanno letteralmente riportato alla mente, ho capito quale funzione nel mondo hanno le mie stesse storie – indipendentemente che le stia raccontando a mia madre, ai miei figli, ai miei amici o, soprattutto, a sconosciuti. E, per chiudere il cerchio, ho compreso un po’ di più come leggere e ascoltare quelle degli altri.
Lo ha scritto Russell Banks in L'angelo sul tetto, Einaudi, pag. 9-10
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