martedì 25 marzo 2008

Morire di rave a 19 anni in nome di un rito stanco

Ci sono articoli che fanno male perché fanno pensare...
Questo, su La Repubblica di oggi, è un gran commento.


di MICHELE SERRA

TUTTE le culture, in tutte le epoche, hanno avuto i loro baccanali. Momenti di "sballo" collettivo che liberano dalle regole, sfrenano i corpi, accendono gli spiriti. I rave-party, così come si sono evoluti in un breve arco di tempo, sono un baccanale triste. Triste come la sconfitta culturale delle controculture giovanili che li hanno inventati e via via abbandonati.

Li hanno via via abbandonati alla deriva masochista delle droghe (soprattutto intrugli di sintesi) e del compiacimento autodistruttivo.

Quando nacquero, nelle zone degli Stati Uniti in crisi industriale, sotto gli enormi scheletri delle fabbriche dismesse e in anni di pesante disoccupazione, volevano essere una risposta corale e alternativa all'aura di morte sociale che incombeva su luoghi e persone. Ballare per ore, a volte per giorni, proprio là dove la società industriale lasciava solo rovine e vuoto.

Riempire quel vuoto con il battito simbolico della musica techno, spesso nata assemblando suoni urbani (sirene, clangori, effetti metallici) reiterati fino allo sfinimento. L'agitazione sfrenata dei corpi che riempie il nulla, lo contrasta, gli si rivolge contro. L'energia e l'adrenalina delle masse giovanili urbane che rifiuta di dismettersi assieme alla produzione. Un significato politico neanche troppo sotteso, anzi rivendicato: "Noi" non accettiamo il silenzio e la stasi che "voi" imponete alle macchine. Noi non vogliamo arrugginire. Noi vogliamo vivere e godere.

E il post-industriale americano e poi europeo si animò delle ombre irrequiete dei ravers, che danzavano sotto le volte scarnificate delle fabbriche abbandonate, in perenne conflitto con leggi (anche appositamente varate), polizia, popolazioni confinanti assordate dal battito e disgustate dalla quantità inverosimile di rifiuti e deiezioni che il rave lasciava sul posto: fenomeno non sorretto, quest'ultimo da alcuna giustificazione "alternativa", e anzi quasi una inconscia firma di indegnità collettiva della quale è molto difficile vantarsi...

Il problema è che, come spesso accade ai propositi radicalmente alternativi, anche i rave hanno finito per imboccare la strada dell'auto-parodia. La frenesia voluta, cercata, rivendicata, è diventata una penosa (e pericolosa) ossessione prestazionale, come se ammazzarsi di rumore, di stanchezza, di "sballo" fosse una sfida alle convenzioni e non alla salute fisica e psichica. La resistenza alle droghe e alla fatica è stata spinta ben oltre il muro della logica. E - soprattutto - il mito quasi sciamanico della "trance" si è sovrapposto, col tempo, all'intenzione originaria, che era quella di una rappresentazione di energia di massa, quasi una riedizione "statica" dei cortei degli anni Settanta: un corteo politico stanziale, con la techno al posto degli slogan, ma in qualche caso anche cortei in piena regola, rave-parade urbane come quella che ha dato tanti grattacapi a Cofferati negli ultimi anni sfilando per le strade di Bologna.

"Uscire di testa" è diventato il mezzo e pure il fine, forse la sola porta d'uscita di una contro-cultura che ama rappresentare la società come la più cupa e fredda delle galere: tanto vale cercare un varco psichico, ennesima versione (però incupita, nera, esiziale) del sogno lisergico di Leary e dei freaks visionari dei Sessanta. In tanti caddero lungo la strada, in tanti cadono ancora.

Il rave di Segrate era, in questo senso, tipicissimo. Il capannone dismesso, lo squallore dei non-luoghi periferici inteso come teatro ideale della lunga cavalcata in arcione alla notte, alla musica e alla chimica. La rivendicazione di uno spazio e di un tempo entrambi non dati.

Detto cinicamente, meglio lì che nei luoghi naturali così spesso massacrati dai rave, come i prati alpini spopolati di flora e fauna dopo il passaggio di decine di migliaia di ballerini tristi, e trasformati in discariche d'alta quota. Assai meno cinicamente, c'è da compiangere il ragazzo di diciannove anni stroncato da chissà quali porcherie, e da soccorrere i molti altri collassati, quelli che il rave, come un corpaccione sordo e sfrenato, proietta ai suoi margini, scorie umane che non reggono il ritmo infernale, ennesima metafora della ferocia meccanica di una fabbrica ormai inesistente. Caduti del non-lavoro.


(25 marzo 2008)

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