Si parlava, in quinta, di Quintiliano, dell'importanza della "politica scolastica" e della prossima consultazione elettorale...
Credo possa dare qualche spunto anche questo articolo di fondo, pubblicato oggi su L'Eco di Bergamo.
L'emergenza scolastica
di Alberto Krali
Education. A Tony Blair bastò una sola parola per vincere le sue prime elezioni. Dopo più di un decennio, eccola planare sulla campagna elettorale italiana. Fedele al motto «Meglio un uovo oggi che una gallina domani», la politica in Italia non si è mai posta il problema della scuola in modo serio. L'educazione è uno di quei settori dove non si pensa in termini di anni, ma quantomeno di lustri. Troppo per chi vuol monetizzare il voto e per l'esattezza subito. Anche in questa tornata elettorale al primo posto sono balzati il costo della vita e le tasse, ma immediatamente dopo arrivano i dati «Pisa». Su 40 Paesi esaminati, l'Italia è al 35° posto nella preparazione degli studenti. Sulle tasse costruiamo il presente, ma è sulla scuola che ci giochiamo il futuro dei giovani e quindi della nazione. Sono i nostri studenti impreparati? No, semplicemente si muovono a compartimenti stagni. Sanno molto o quasi di una disciplina, ma appena gliela fanno declinare con altri saperi vanno nel pallone. I loro colleghi europei ne sanno meno, ma sono in grado di far interagire le varie discipline. La matematica e la fisica non sono solo per pochi genietti se possono aiutare a decifrare i piccoli segreti dell'esperienza quotidiana, per esempio i colori e il tramonto del sole, gioco letteratura (Goethe) e scienza (Newton) insieme. Non si vuole lo scibile esaustivo del tema, basta suscitare interesse. Investire sul coinvolgimento dell'allievo per poi introdurre il metodo di lavoro. Nel tempo è quello che resta.
Ci vuole dunque passione e mestiere. La scuola italiana però nei decenni è passata dalla formazione alla fruizione. Per gli insegnanti così come per gli studenti è il voto che conta. Risultato: sanno tutto di grammatica, ma se chiedono loro che ore sono in lingua straniera diventano rossi. È l'insegnante un pedagogo? No, è diventato un impiegato. Se non sa compilare un formulario è un ignorante. Qualcuno gli ha mai chiesto, all'inizio della professione, se gli piaceva insegnare e soprattutto come pensava di farlo? No, perché ai fini della carriera non conta. Ore e ore a discutere per prendere una decisione di cinque minuti. L'assemblearismo sessantottino è ancora la regola della scuola italiana. Una questione ideologica. A nessuno è venuto in mente che quelle benedette 80 ore annuali possono essere impiegate in attività didattica, o più semplicemente di riconversione professionale, con esperienze all'estero per imparare come si lavora dalle altre parti. Prima le mani, poi il cuore, e solo dopo la testa: non è la corsia privilegiata degli ignoranti, è l'approccio pedagogico di Pestalozzi. Basta andare alla scuola svizzera, a quella tedesca o a quella scandinava per rendersene conto. Chi è in testa nella famosa graduatoria «Pisa»»?
I finlandesi, gli svedesi. Appunto. La scuola italiana non ha bisogno di grandi riforme. L'ultima, quella della Moratti, l'ennesima dopo quella di Berlinguer, ha registrato una guerra ideologica e non ha sortito particolari effetti sul piano dell'efficienza. Bastano piccoli interventi. Primo: motivare gli insegnanti. Chi lavora bene con le classi va premiato. Chi attesta il merito? Gli studenti, i genitori, una commissione indipendente esterna. Ci sono scuole buone, altre meno; ci sono regioni con buone scuole, altre con istituti scadenti. Nella Germania del federalismo un diploma in Baden-Wuerttemberg non è uguale a quello dell'Assia, e nei colloqui di lavoro se ne tiene conto. Nei Paesi anglosassoni è con la selezione che hanno ottenuto le migliori università, dove poi finiscono per approdare i rampolli della borghesia bene italiana. Concorrenza, ecco la parola.
1 commento:
La mera conoscenza nozionistica di una materia, se non troverà un’ approfondimento e un’applicazione successive nell’univeristà e nel mondo del lavoro, nel giro di pochissimi anni sarà irrimediabilmente perduta! Personalmente di tutto lo studio di letteratura, filosofia, storia non mi rimangono che sprazzi di idee e concetti vaghi, nomi famosi, ai quali non so praticamente associare il motivo di tanta fama. Ed è una situazione davvero imbarazzante, in una società che identifica il concetto di “cultura” con il concetto di “cultura classica-letteraria” (anche se forse negli ultimi anni qualcosa sta cambiando in favore della “cultura scientifica”).
Dunque che senso ha studiare tanto per poi perdere tutto?
Io credo che il vero significato di puntare su una cultura generale un po’ meno specifica per ogni settore, ma con idee molto più chiare di interconnessione tra i vari studi, stia proprio qui. (Per la formazione specialistica, tanto, c’è l’univeristà!)
È un po’ come succede per gli alberi che vengono piantati sui pendii per prevenire le frane: tanto più le radici si intrecceranno tanto più il terreno rimarrà stabile. Quanto più si riuscirà a formare una cultura in grado di abbracciare i vari settori in una visione unitaria tanto più essa potrà consolidarsi e perdurare.
Il filo conduttore, la base su cui poter fondare una simile conoscenza non può che essere la storia.
Invece le materie scientifiche vengono sempre ed irrimediabilmente studiate “estrapolando i concetti dal loro contesto storico”. Errore gravissimo, principalmente perché si perde metà del fascino di queste materie, che potrebbero risultare interessanti anche a chi ha un animo più letterario; per contro le menti più scientifiche verrebbero aiutate a non perdere di vista le vicende umane e, oserei dire, la filosofia che stanno alla base di importanti scoperte.
Parallelamente le materie umanistiche lasciano pochissimo spazio alle vicende scientifiche, per quanto di notevole importanza. Quanti professori di storia, ad esempio, spiegando la seconda guerra mondiale, si ricordano di mettere nell’elenco degli eventi importanti, l’introduzione e la diffusione dell’ uso di sulfamidici e pennicillina? Si tratta di una vera e propria svolta epocale nel modo di concepire e curare le malattie. E’ la base dell’esplosivo progresso medico che ha portato l’aspettativa di vita agli attuali 80 anni, contro i 42 del secolo scorso, rivoluzionando decisamente la qualità oltre alla “quantità” di vita! E SCUSATE SE E’ POCO! Ma alla storia questo non interessa, ovviamente…
D’altronde lo vediamo bene anche noi, nel quotidiano, quanto sia assurdo pensare di scindere queste due realtà. La scienza è fatta da uomini e in quanto tali esseri dotati di sentimenti, speranze, sogni… Quando si sente nominare Einstein tutti pensiamo E=mc², ma nessuno si ricorda o si preoccupa del fatto che il più grande fisico di tutti i tempi era anche un grande filosofo! E gli “uomini di pensiero”? Beh, anche loro vivono nel mondo del progresso scientifico a nulla varrebbe negare che ne vengano influenzati (nei piccoli gesti e soprattuto nei grandi pensieri!)… sempre che non vogliano apparire anacronistici!
Ed è proprio questo il nocciolo della questione. Si parla sempre di “scientifico” VS “umanistico” senza rendersi conto di quanto questa divisione sia puramente didattica e fortemente controproducente. Se cercassimo di definire, nella storia, dove si colloca questa distinzione ci accorgeremmo che non esiste, perché inevitabilmente il pensiero scientifico ha influenzato quello umanistico e quello umanistico ha spronato la scienza. E’ necessario puntare sull’integrazione di questi due ambiti per ottenere quella capacità di fare interagire le varie discipline!
Purtroppo i programmi scolastici sembrano studiati apposta per mantenere le materie ben suddivise in compartimenti stagni. Non c’è mai corrispondenza. Lo studio della chimica inizia con il modello atomico: elaborato dalla meccanica quantistica nel 900; La fisica parte dalla meccanica di Galileo: metà 500; il programma di storia se non ricordo male inizia dalla cultura egizia…
In terza con la fisica si arriva all’800 con lo studio della termodinamica, mentre letteratura parte dal medioevo, e la filosofia viene introdotta con Parmenide e i grandi filosofi della grecia antica…
Mi rendo conto della difficoltà di gestire altrimenti le cose, ma non deve stupire, poi, che un povero studente faccia fatica a contestualizzare i vari studi e coglierne i collegamenti significativi. Forse solo alla fine della quinta, ammesso che uno riesca davvero a non dimenticare nulla di quello che ha studiato in 5 anni, potrebbe farsi un quadro generale. Da solo, ovviamente, perché nessun docente sarebbe in grado di fare quello che è richiesto agli studenti! Ogni prof infatti, forte della conoscenza specifica e approfondita della sua materia, si è auto-assolto da tanto tempo per aver dimenticato tutto quello che ha studiato al liceo… :-)
Ps caro prof, spero vorrà informarmi se le mie lunghe disquisizioni danno noia al suo blog, sicchè vedrò di astenermi!
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