sabato 26 aprile 2014

25 aprile 2014 - Commemorazione ufficiale nel 69° anniversario della Liberazione

«Dedico questi ricordi ai miei amici: vicini e lontani; di vent’anni e di un’ora sola. Perché proprio l’amicizia – legame di solidarietà, fondato non su comunanza di sangue, né di patria, né di tradizione intellettuale, ma sul semplice rapporto umano del sentirsi uno con uno tra molti – m’è parso il significato intimo, il segno della nostra battaglia. E soltanto se riusciremo a salvarla, a perfezionarla o a ricrearla al di sopra di tanti errori e di tanti smarrimenti, se riusciremo a capire che questa unità,quest’amicizia non è stata e non dev’essere solo un mezzo per raggiungere qualche altra cosa, ma è un valore in se stessa, perché in essa forse è il senso dell’uomo – soltanto allora potremo ripensare al nostro passato e rivedere il volto dei nostri amici, vivi e morti, senza malinconia e senza disperazione».
Con queste parole apre il suo Diario partigiano Ada Prospero,vedova di Piero Gobetti, che nel 1956 diede alle stampe il suo libro, in cui racconta la storia di una madre che si dedica alla lotta partigiana insieme col figlio diciottenne. Ne tenne nota giorno per giorno tra il 1943 ed il 1945 e solo un paio d’anni dopo la Liberazione, ad impressioni ancora vive nella memoria, iniziò a scriverne il testo che poi venne pubblicato da Einaudi.
Vorrei partire dalla dedica che abbiamo appena ascoltato e dalle parole che, poco prima della morte, Ada Prospero ebbe a dire a chi le chiedeva cosa pensasse delle celebrazioni della Resistenza. Rispose:
«Mi pare che la stiano impacchettando con un bel cartellino per mandarla al museo. Perché tagliarla fuori come un momento unico e irripetibile, parlarne come di un punto di arrivo invece che di un punto di partenza? La sua validità sta nel fatto che in essa non poteva esistere conformismo: situazioni sempre nuove imponevano soluzioni sempre nuove, e questo bisogna farlo capire ai giovani. Se sapremo analizzare spregiudicatamente quel periodo con i suoi contrasti, i suoi limiti, i suoi errori, daremo loro la possibilità di una scelta. Ritroveranno quella stessa carica che avevamo noi: come ogni età dell’uomo ha la maturità che le è propria, così ogni epoca della storia ha la propria carica di giovinezza, che si può esprimere in forme e aspetti completamente diversi, ma avrà sempre uno stesso impeto creatore e rinnovatore».
Ada Prospero morì nel 1968; le sue parole di critica e di speranza suonano ancora attualissime e sembrano aver passato indenni le fasi della storia italiana che sono seguite nei decenni seguenti, partendo proprio dai movimenti del ’68 per giungere alla definizione dello scorso dicembre che il Censis ha dato degli italiani, “sciapi ed infelici”, passando per luci – poche – ed ombre –assai di più – dei decenni intermedi.
Abbiamo concordato di lasciare ai rappresentanti dell’ANPI, dei Combattenti e Reduci e, quest’anno, nel prosieguo di un’ideale staffetta, al rappresentante dei Marinai, le voci della commemorazione diretta; a me il compito di “chiudere” quanto detto in una considerazione che possa poggiarsi sulla ricchezza dell’esperienza di chi quelle vicende ha vissuto.
Nelle parole di Ada Gobetti appare evidente in prima istanza la dimensione valoriale dell’esperienza vissuta: un legame di vicinanza forte, capace di scardinare il pacifico ma avvilente compromesso con la propria coscienza cui il fascismo chiamava giorno per giorno. E, nelle considerazioni che abbiamo ascoltato per seconde e che nacquero alla vigilia dello scoppio delle contestazioni del 1968, c’è forte l’impegno alla valutazione critica di quanto accaduto durante la Resistenza ma, soprattutto, c’è l’esortazione alle generazioni future a vivere con la stessa intensità una passione politica, capace di interpretare correttamente il proprio tempo per renderlo adeguato al “sentirsi uno con uno tra molti”.
Proprio a fianco del Diario Partigiano, sul mio comodino, in questi stessi giorni c’era un altro volume, a prima vista del tutto lontano ed estraneo al primo; si tratta de Il libro dell’orologio a polvere di Ernst Jünger, che un exalunno di tanti e tanti anni fa mi aveva caldamente consigliato di leggere.
In parallelo, una storia che racconta una vita spesa in un tempo preciso e un volume che narra il desiderio dell’uomo di misurare il tempo. Li ho trovati reciprocamente illuminanti e, credo, è proprio grazie al secondo volume che io comprendo meglio quanto stiamo facendo oggi e quanto dovremo continuare a fare nei prossimi anni, con e per convinzione. Abbiamo tutti consapevolezza del fatto che due sono i grandi paradigmi che ci permettono di ragionare sul tempo: c’è chi vede il tempo come una struttura ciclica, circolare, che torna su se stessa, e chi lo interpreta linearmente, con una specifica destinazione. Scrive Ernst Jünger:
«Il tempo che ritorna è un tempo che dona e restituisce. Le ore sono ore dispensatrici. Sono anche diverse l'una dall'altra perché ci sono le ore di tutti i giorni e le ore di festa. Ci sono albe tramonti, basse e alte maree, costellazioni e culminazioni.
Il tempo progressivo, invece, non viene misurato in cicli e moti circolari, ma su una scala graduata; è un tempo uniforme. Qui i contenuti passano in secondo piano. Ed è per questo che il tempo in quanto tale diventa importante.
Il tempo progressivo, invece, non viene misurato in cicli e moti circolari, ma su una scala graduata; è un tempo uniforme. Qui i contenuti passano in secondo piano. Ed è per questo che il tempo in quanto tale diventa importante.Nel ritorno l'importante è l'inizio, nel progresso la meta finale». 
Mi pare che per gente come noi, abituata oggi ad una scansione lineare del tempo, ritornare annualmente sui nostri passi (come fa il tempo della natura, delle stagioni…) per celebrare la festa della Liberazione sia proprio recuperare un inizio, un nuovo inizio, di cui si deve dar conto ed a cui ci si deve richiamare.
Nelle parole che oggi abbiamo sentito convivono, a mio avviso, proprio queste due dimensioni: l’idea di una tensione verso il futuro, da costruire con solidarietà e vicinanza, e d’altro canto anche la consapevolezza di un’identità, di un passato, di una storia, che va raccontata proprio perché noi siamo quell’identità, quel passato, quella storia.
La cerimonia del 25 aprile incarna questi due momenti: ci riporta ad una dimensione di circolarità del tempo, proprio nella celebrazione dei suoi contenuti originari, e ci consente di rimanere immersi nel tempo odierno, cui va dedicato il nostro impegno perché valori e ideali per cui in tanti hanno dato la vita, non si perdano.
Scrive sempre Ernst Jünger:
«Il tempo ciclico e il tempo progressivo sollecitano due stati d'animo fondamentali dell'uomo, il ricordo e la speranza. Sono i due edificatori della sua dimora. In loro si incontrano padre e figlio, spirito conservatore e spirito riformatore». 
Sappiamo, con la cerimonia di oggi, essere capaci ancora di ricordo e speranza. Lo è stata Ada Prospero, lo sono stati persone, gruppi, enti, associazioni che si sono impegnati in questi anni a tramandare una memoria; sappiamolo quindi essere anche noi, quotidianamente, recuperando nel nostro agire il ricordo di quanto è stato e la speranza di saper costruire il futuro.
Viva il 25 aprile! Viva l’Italia!

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