Senza maestri che appassionino restano le «vogliuzze»
«Tutti vogliono le stesse cose, tutti sono eguali. Una vogliuzza per il giorno e una per la notte: salva restando la salute. "Noi abbiamo inventato la felicità" – dicono e strizzano l’occhio. Io ho conosciuto persone nobili che hanno perduto la loro speranza più elevata. E da allora calunniano tutte le speranze elevate. Da allora vivono sfrontatamente di brevi piaceri e non riescono più a porsi neppure mete effimere. Perciò hanno spezzato le ali al loro spirito: che ora striscia per terra e contamina ciò che rode... Ma, ti scongiuro: mantieni sacra la tua speranza più elevata!». A leggere queste parole di Nietzsche si rimane sbalorditi: aveva previsto la chiusura della mente borghese e la sua rinuncia alla vita.
Nessun uomo è un’isola e, parafrasando il poeta, si può dire lo stesso di uno studente che abbandona la scuola. Se abbandona, non fallisce lui solo, ma la scuola come relazione: genitori-insegnanti-studenti. I dati parlano chiaro, negli ultimi cinque anni uno studente su tre dell’ultimo quinquennio non arriva al diploma; nell’ultimo anno il 20% ha abbandonato il liceo e il 44% gli istituti professionali. La scuola dovrebbe essere, attraverso la cultura e il lavoro manuale, un trampolino di lancio per la scelta professionale più adeguata. Quello che posso dire, da professore, è che molti abbandonano perché la scuola appare loro inutile per ciò che vogliono essere e fare nella vita.
Durante un’estate da liceale squattrinato lavoravo in un cantiere come aiuto di un manovale: «Sei fortunato – mi ripeteva – perché puoi studiare: se potessi, io tornerei indietro». La scuola dell’obbligo non obbliga a rimanerle fedele perché non riesce a obbligarti: solo gli amori veri e grandi "obbligano" alla fedeltà. I ragazzi che si disperdono spesso non hanno trovato docenti in grado di appassionarli. Eppure la scuola dovrebbe essere un "andare a bottega": scoperta e incoraggiamento dei talenti personali per opera di maestri. Ho incontrato, con l’occasione del mio primo libro, studenti di tutte le città e percorsi. Ho trovato ragazzi di istituti tecnici affamati di letture, ben sapendo che avrebbero fatto l’elettricista, l’idraulico, l’informatico. Tutto merito di professori appassionati ai loro alunni, capaci di accendere nei ragazzi, attraverso la cura del pezzo di mondo loro affidato, lo sguardo su una vita più grande, più piena, più ricca.
Molti ragazzi abbandonano perché tanto un lavoro si trova: si guadagna subito e si realizza l’orizzonte ristretto delle «vogliuzze». Manca loro uno sguardo di più lunga gittata. Gli adulti descritti da Nietzsche riescono a spegnere quello sguardo, perché hanno rinunciato loro stessi a una vita più grande. Anche loro si accontentano del tutto e subito. Se i ragazzi non leggono libri, è perché gli adulti accendono la tv, invece di prendere in mano un libro. Se i ragazzi abbandonano la scuola, è perché gli adulti della scuola non sono interessati a loro. La crisi dei giovani è crisi di maestri. Io conosco centinaia di maestri capaci di provocare la nostalgia del futuro, provocando (chiamandole alla luce) le risorse migliori degli studenti. Di contro ci sono docenti che odiano i loro studenti, li umiliano e condannano all’abbandono, non solo della scuola, ma di sé stessi.
Nietzsche sferzava i benpensanti che trasformavano la felicità in vogliuzze e benessere, gli stessi che hanno criticato queste parole: «Allo stesso tempo la gioventù rimane comunque l’età in cui si è alla ricerca della vita più grande. Se penso ai miei anni di allora: semplicemente non volevamo perderci nella normalità della vita borghese. Volevamo ciò che è grande, nuovo. Volevamo trovare la vita stessa nella sua vastità e bellezza». Le ha pronunciate Benedetto XVI, qualche giorno fa. Nietzsche e il Papa sembrano d’accordo. Esiste un terreno sul quale la scuola sta mancando e non è questione di ideologie, ma di amore all’uomo. Nella scuola è dei docenti – alleati ai genitori – il compito di trasmettere una vita più grande e nuova attraverso le loro ore di lezione.
Alessandro D’Avenia su L'Avvenire dell'8 settembre 2010
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