di Massimo Gramellini
Sconvolto dagli effetti apocalittici del terremoto di Haiti, sono andato in cerca di informazioni per scoprire com’era la vita nell’isola, fino all’altro ieri. Ho appreso che l’ottanta per cento degli haitiani vive (viveva) con meno di un dollaro al giorno. Che il novanta per cento abita (abitava) in baracche senza acqua potabile né elettricità. Che l’aspettativa di vita è (era) di 50 anni. Che un bambino su tre non raggiunge (raggiungeva) i 5 anni. E che, degli altri due, uno ha (aveva) la certezza pressoché assoluta di essere venduto come schiavo.
Se questa è (era) la vita, mi chiedo se sia poi tanto peggio la morte. Ma soprattutto mi chiedo perché la loro morte mi sconvolga tanto, mentre della loro vita non mi è mai importato un granché. So bene che non possiamo dilaniarci per tutto il dolore del mondo e che persino i santi sono costretti a selezionare i loro slanci di compassione. Eppure non posso fare a meno di riflettere sull’incongruenza di una situazione che – complice la potenza evocativa delle immagini – mi induce a piangere per un bambino sepolto sotto i detriti, senza pensare che si tratta dello stesso bambino affamato che aveva trascorso le ultime settimane a morire a rate su quella stessa strada. Così mi viene il sospetto che a straziarmi il cuore non sia la sofferenza degli haitiani, che esisteva già prima, ma il timore che una catastrofe del genere possa un giorno colpire anche qui. Non la solidarietà rispetto alle condizioni allucinanti del loro vivere, ma la paura che possa toccare anche a me il loro morire.
(da La Stampa di venerdi 15 gennaio)
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